Lo storico, fallimentare riposizionamento di marca di Tropicana
Immagina di investire 35 milioni di dollari in una strategia di rebranding del tuo marchio, pianificata da una rinomata agenzia. Un nuovo logo e un nuovo packaging che dovrebbero svecchiare…
Immagina di investire 35 milioni di dollari in una strategia di rebranding del tuo marchio, pianificata da una rinomata agenzia. Un nuovo logo e un nuovo packaging che dovrebbero svecchiare il tuo brand, rendendolo più moderno. Come reagiresti se dopo meno di due mesi dal lancio della campagna, le tue vendite crollassero del 20%, pari a una perdita di 30 milioni di dollari? È ciò che è accaduto a Tropicana, noto marchio americano di succhi di frutta.
Vediamo in dettaglio cosa non ha funzionato e come evitare di ripetere gli stessi errori.
Il primo passo falso
Il motivo alla base del fallimento del rebranding di Tropicana è ben evidente e dunque evitabile: l’azienda americana è stata vittima di una mancata analisi a monte,
necessaria prima di stendere qualsiasi piano strategico. Soltanto in
seguito è possibile passare al redesign del logo e del packaging.
Procediamo per gradi.
Il brand Tropicana
Fondato da un siciliano immigrato in America, il brand Tropicana appartiene dal 1988 al gruppo americano PepsiCo ed è tradizionalmente associato alla produzione di succhi di frutta, in particolar modo succo d’arancia. Nel 1954 Tropicana introdusse un nuovo sistema di pastorizzazione, chiamato “Tropicana Pure Premium”, il quale favorì la percezione di alta qualità non derivante da concentrato. Grazie a questo fattore di differenziazione, Tropicana fu il primo brand a commercializzare con successo la spremuta d’arancia della Florida oltreoceano.
La strategia di rebranding
Nel 2009, Tropicana affidò il proprio rebranding all’agenzia creativa di Peter Arnell, con l’obiettivo di “conferire al marchio un aspetto più moderno”.
Il rebranding di Tropicana partì dalla spremuta best seller in Nord America, attraverso un visual completamente rinnovato:
- L’originario logo orizzontale seguito da “Pure Premium” fu sostituito da uno nuovo, posto in verticale, con un font più semplice, dalle dimensioni ridotte e accompagnato dal payoff “100% Orange Pure and Natural”. Inoltre la Unique selling proposition (USP) iniziale “No pulp”, precedentemente ben visibile nella parte alta del packaging, fu collocata sotto “100% orange” e divenne “pure & natural”
- L’iconica arancia con la cannuccia fu sostituta da un bicchiere di vetro colmo di spremuta
- Il tappo della confezione assunse la forma e consistenza di in un’arancia che il consumatore poteva spremere, accompagnato dal nuovo payoff “Squeeze, it’s natural”
- La campagna pubblicitaria ruotò attorno al concetto di spremere, stringere (“squeeze”), reso sotto forma di abbracci in contesti familiari, per richiamare il legame affettivo col marchio e il payoff
I primi risultati del rebranding
I risultati economici furono a dir poco disastrosi e visibili a meno di due mesi dalla nuova strategia di posizionamento:
- Contrazione delle vendite del 20%, pari a una perdita di 30 milioni di dollari
- Migliaia di lettere ricevute da parte dei consumatori affezionati di Tropicana
- Crollo della brand awareness
- Danno alla brand reputation, specie sui social network
- Avanzamento nelle quote di mercato da parte dei competitor
- Perdita totale stimata: 50 milioni di dollari
Il 23 febbraio 2009, Tropicana annunciò il ritorno al packaging originario, riportando l’iconica confezione sugli scaffali dei supermercati.
Perché il riposizionamento di Tropicana è stato fallimentare
La strategia di rebranding di Tropicana era imperniata attorno alla volontà di “svecchiare” il marchio e avvicinarlo ai consumatori. Tuttavia, il riposizionamento attuato sul prodotto best-seller in Nord America, venne percepito in modo opposto, con conseguente distacco da parte del consumatore.
Analizziamo nel dettaglio le falle della strategia di riposizionamento:
- Il logo era posto originariamente al centro, ben visibile. Quando fu spostato sul lato della confezione, in verticale e in dimensioni ridotte, esso perse l’attenzione del consumatore, la cui mente era solita individuarlo in fretta e senza sforzi. La sostituzione del font ha conferito al logo ridisegnato l’aspetto di un’imitazione, di un fake. L’Art Director della campagna, Paul Campbell, giustificò tale azione affermando che il brand avesse sempre mostrato l’arancia come frutto (prima di essere spremuta), ma mai il succo vero e proprio, ovvero l’effettivo prodotto contenuto nel packaging. Un’ipotesi non verificata e validata da dati che fu fatale.
- L’iconica arancia con la cannuccia enfatizzava efficacemente la USP: solo polpa d’arancia. Al contrario, il bicchiere colmo di spremuta uniformava Tropicana agli altri brand di succhi di frutta, appiattendo dunque la propria offerta al livello dei concorrenti. Il legame emotivo del consumatore nei confronti dell’arancia con la cannuccia era forte e rappresentava un importante segnale di riconoscibilità del marchio. La sua rimozione ha avuto un considerevole impatto sul calo delle vendite, a beneficio dei concorrenti.
- La USP “No pulp” in maiuscolo fu rimossa dal punto più alto della confezione e collocata al centro, in minuscolo, di colore bianco e su tre righe: “100% Orange” in dimensioni più grandi e “Pure &Natural” in dimensioni più piccole. Una scritta verde – più piccola e sul fondo della confezione – ripeteva essenzialmente la USP, con altre parole (“Not from concentrate. 100% orange juice pure & natural pasteurized”). Anche questa scelta si è rivelata fatale: spostando la USP e rendendola più complicata, diluita e meno visibile, il nuovo packaging portò il consumatore a sentirsi destabilizzato e sostanzialmente non era più certo di acquistare la sua spremuta Tropicana.
- L’innovazione del tappo a forma di arancia da poter spremere con le proprie mani era probabilmente l’unico elemento salvabile dell’intera campagna, un effetto sorpresa che se fosse stato unito alla preservazione del brand, avrebbe potuto migliorarne il legame emotivo, di per sé già molto forte. Tuttavia, si sarebbero dovuti valutare in modo approfondito il rapporto costi-benefici: aggiungere un tappo dal design e texture più costosi avrebbe avuto un impatto tale da recuperare i costi dell’innovazione?
Emerge chiaramente la macro-causa del fallimento della strategia di rebranding di Tropicana: una mancata analisi approfondita a monte.
Lo studio preventivo del posizionamento conquistato da Tropicana negli anni, avrebbe consentito al team di Arnell di elaborare una strategia volta a fornire un effetto restyling “rinvigorente” senza al contempo causare lo smarrimento del consumatore. L’analisi avrebbe evidenziato come quest’ultimo fosse emotivamente legato al brand, alla sua iconica visual identity e quanto la USP fosse ben veicolata sul packaging, fornendo a Tropicana un notevole vantaggio competitivo. Il rischio di generare smarrimento è molto alto in casi come questo, in cui il legame fra i consumatori e il brand è strettamente correlato all’acquisto abitudinario, in particolar modo se il restyling interessa così tanti dettagli differenzianti del packaging.
L’analisi del mercato e della percezione del marchio stesso è tanto necessaria quanto lunga e complessa, ma è ciò che fa la differenza tra un riposizionamento strutturato con cognizione di causa e uno basato su un’opinione soggettiva.
Un’opinione che, come abbiamo visto, può costare anche milioni di euro in termini di danni alla reputazione e mancate vendite. Frasi come “We thought it would be important to take this brand and bring it or evolve it into a more current or modern state” sono pericolosissime in un piano di rebranding. Il “We thought” (“noi abbiamo pensato che”) non dovrebbe esistere: ogni strategia dev’essere fondata su un’analisi approfondita dei dati concreti. È questa la chiave di un rebranding di successo, il quale, a breve e medio termine migliora la percezione del marchio e la sua reputazione e, a medio-lungo termine, incide positivamente sul fatturato e fidelizzazione della clientela.