La poke bowl che spiega come l’esperienza modifica il percepito
Ci sono giornate in cui il telefono ti interrompe ogni 10 minuti, le mail sembrano riprodursi autonomamente dentro la casella e l’orologio del computer ti lancia occhiate di disapprovazione ogni…
Ci sono giornate in cui il telefono ti interrompe ogni 10 minuti, le mail sembrano riprodursi autonomamente dentro la casella e l’orologio del computer ti lancia occhiate di disapprovazione ogni volta che pensi di alzarti dalla sedia.
Quando va così, la pausa pranzo ha sempre un gusto un po’ particolare. La consumi beato, concedendoti il lusso di riflettere sulla forma dei comodini o sulla macchia che deturpava la camicia del tuo vicino di autobus mentre venivi in ufficio. Una pausa che non può essere rappresentata da una pasta fredda o da un misero panino. In quelle giornate, meriti un pranzo diverso. Saporito. Esotico.
In RBHQ era una di quelle giornate.
Quando il rider di Just Eat suonò al citofono annunciando la consegna della “poche bbùl” di Carlotta, la vedemmo accoglierlo con la rapidità di chi ha palesemente fame e ha passato la mattinata a pregustare quel genere di pausa.
Ci raggiunge con la busta, libera la scrivania e si siede. Estrae la bowl. Salsa di soia. Acqua. Tovagliolo. Cerca ancora nella busta. Poi il dramma.
<<Oh no…>>
<<Cosa?>> Chiedo.
Alza la testa dalla busta e mi guarda con un misto di delusione, rabbia e smarrimento.
<<…non mi hanno dato le bacchette.>>
Continua a cercarle per qualche secondo tra i tovagliolini ma è costretta a desistere; non ci sono e il rider ormai è andato. Si siede rassegnata e scoperchia la bowl, ma con meno entusiasmo di prima.
<<Beh dai, abbiamo le forchette.>>
Mentre lo dico mi rendo conto che il mio suggerimento suona malissimo e che, per qualche motivo, l’idea di mangiare un poke con la forchetta fa passare un po’ l’appetito anche a me. Sento lo stesso fastidio latente che proverei di fronte a un turista che mangia gli spaghetti spezzettati in Piazza Maggiore raccogliendoli con il cucchiaio; lo stesso che mi provocano i locali hipster che servono lasagne scomposte in barattoli a chiusura ermetica.
Carlotta nicchia davanti alle forchette.
<<Non è la stessa cosa>>.
No. Non lo è.
Dalla carbonara al veggie burger: la normalizzazione dell’opzione etnica modifica il valore (ma non la scelta)
Che il nostro modo di mangiare si stia evolvendo è ormai un fatto noto. Siamo lontani anni luce dai modelli di alimentazione del boom economico, e la casalinga di Voghera, che ci rassicurava sulla cottura della pasta e la soddisfazione di figli e marito, oggi ci fa solo una gran pena.
Quando il sushi e i veggie burger hanno iniziato a sostituire la carbonara, abbiamo dato la colpa alle calorie e ci siamo vantati di essere in grado di fare qualche rinuncia per prenderci cura della nostra salute. Abbiamo istruito gli amici sul seitan e sulle polpette di ceci, sostenendo che, in fondo, non erano così diverse da quelle di carne.
Vent’anni dopo l’avvento della globalizzazione alimentare, siamo finalmente arrivati ad ammettere la verità. Il sushi non è sano e le polpette di ceci sanno, indovinate un po’, DI CECI.
Ma ormai è troppo tardi. Il mercato ci rinfaccia le nostre stesse convinzioni e ci propone piatti healthy da 600 calorie a porzione. Eppure continuiamo a mangiarli e a preferire l’all you can eat di sushi al giropizza, che offrirebbe comunque un’ampia scelta senza limiti. Ci scoccia avere torto e ci scoccia dover affrontare la realtà e rinunciare al gusto etnico, perché l’unica cosa che è sempre stata vera sul sushi è che ci piace un sacco.
Tuttavia, non è solo questione di orgoglio.
Nostalgia e Convivialità: due leve d’acquisto tipicamente italiane
Negli anni ’90, l’iniziale entusiasmo per le novità etniche, seguito da una diffusione esponenziale di prodotti e ristoranti, ha creato un fortissimo fattore aggregante. Forti del nostro sentimento conviviale, tutto italiano, nei confronti del pasto, ci avventuravamo con gli amici al nuovo ristorante di zona, alla scoperta dell’uramaki o del pollo tandoori. La continua novità e la condivisione di gioie e dolori dati dai nuovi menù, ci ha permesso di confrontarci e costruire ricordi e amicizie indissolubilmente collegati a quei pasti. Con i cambiamenti economici e l’aumento dell’immigrazione nel nostro paese, abbiamo iniziato a vederlo anche come un gesto di inclusività e a percepirne, anche inconsciamente, il valore culturale e comunicativo.
A dare una particolare spinta a questo fenomeno, è stato il crescente dilagare dell’intrattenimento culinario.
La generazione MasterChef ha saputo trasformare la necessità di nutrirsi in una vera e propria forma di comunicazione e affermazione personale.
I concorrenti del programma, selezionati (non proprio casualmente) tra commessi e impiegati, ci hanno raccontato una vita frustrante e oppressiva, e si sono guadagnati la nostra empatia destreggiandosi tra le urla dei giudici e affermando il proprio talento in cucina in un moderno Viaggio dell’eroe enogastronomico.
Nel tentativo di mostrarci, anche noi, colti e più forti della crisi, abbiamo imparato a ricercare ingredienti preziosi e ad apprezzare l’aspetto del cibo. Abbiamo capito che queste scelte parlano di noi molto più di quanto immaginavamo e non abbiamo più guardato il menù del ristorante nello stesso modo; lo stesso menù ha iniziato a guardarci in modo diverso. Avocado, mango e quinoa hanno invaso i nostri carrelli della spesa e abbiamo iniziato a cimentarci in purè di topinambur e coulis di rabarbaro e a far fare le piroette al tubetto di glassa balsamica; perché se ci riesce la mamma single di Caltanisetta, noi che l’abbiamo vista sbagliare lo sapremo fare certamente meglio.
Ma a questo punto vi starete chiedendo:
cosa c’entra tutto questo con le bacchette di Carlotta?
C’entra. Perché quell’insoddisfazione è figlia di un’aspettativa ben precisa e di un sistema di valori costruito proprio grazie a questo background. Il problema di Carlotta non era nel mangiare con la forchetta, ma nel mangiare quello specifico piatto con la forchetta.
Quando i nostri amici ci hanno insegnato a usare le bacchette, trasmettendoci quella conoscenza goffamente in perfetto stile 2001 Odissea nello spazio,abbiamo collegato quel gesto a un momento di condivisione e a un sistema valoriale completamente nuovo e strettamente legato alla natura di ciò che stavamo mangiando.
Non certo perché fosse più buono o più strano, ma perché ci ha fatto sentire in modo diverso.
Non scherziamo, imparare a raccogliere del riso con due bacchette di legno non è immediato e, inizialmente, dà ben poche soddisfazioni. Ci innervosisce e ci toglie il gusto del boccone abbondante che avremmo con la forchetta. In quel momento ce ne importa poco della tradizione e all’amico spavaldo, che si atteggia a Karate Kid afferrando maki al volo, sbatteremmo una bella 4 stagioni in faccia. Tuttavia, superare lo scoglio cambia la nostra prospettiva e ci posiziona allo stesso livello dell’esperto del gruppo. Acquisita la nuova abilità anche no
Bacchette equivale a etnico ed etnico vuol dire cultura, status e felicità.
e una poke bowl senza bacchette non è altro che una costosissima insalata. Riso, salmone crudo, avocado ed edamame: la versione vegetariana di quella che preparava nostra madre per i pic nic in spiaggia e che ci impediva di fare il bagno per tre ore. Decisamente meno appetitoso come sistema valoriale.
Ah! Visto che siamo in tema di cibo asiatico, vi lascio con un altro piccolo disclaimer:
l’onighiri è solo un’arancina che non ce l’ha fatta.