La psicologia d’acquisto del vino tra economia della scelta e irrazionalità

La scena è piuttosto standard. Messaggio dell’ultimo minuto: “Stasera cena da noi. Siamo tutti. Vengono anche Tizio e Caio che facciamo finta che non vedi l’ora di rivedere. Ti conto…

La scena è piuttosto standard.
Messaggio dell’ultimo minuto: “Stasera cena da noi. Siamo tutti. Vengono anche Tizio e Caio che facciamo finta che non vedi l’ora di rivedere. Ti conto eh!
Dopo un paio di messaggi in cui puntualizziamo lo scarso preavviso millantando impegni inderogabili, accettiamo con il consueto “dai, per questa volta mi libero”.
Si prospetta una bella serata e, per una volta, non sei tu a dover cucinare e pulire. Ti concedi 10 minuti sul divano a pregustare le chiacchiere con gli amici. Mancano ancora due ore e hai tutto il tempo di prepararti e uscire con calma. Doccia. Abito. Dovrò portare qualcosa? Il pensiero viene triangolato tempo zero. Nuovo messaggio: “Ah, il vino lo porti tu?” Panico.

La scelta di un vino è ormai comune nelle nostre interazioni. Lo scegliamo per una cena in famiglia, per un appuntamento galante o per una serata tra amici e ogni occasione richiede una bottiglia adeguata al contesto e alle aspettative. Ma se anni di documentari e interviste a sommelier, ci hanno abituato a collegare questa scelta a sentori e proprietà organolettiche, la realtà a scaffale è molto diversa.

Per comprendere a pieno questa scelta dobbiamo innanzitutto definirne il contesto.

Se un tempo il vino si acquistava dal produttore o in enoteca, oggi gran parte degli acquisti si fanno online o al supermercato che, secondo una ricerca Iri, si conferma primo canale di distribuzione in Italia con 619 milioni di litri venduti. Al momento dell’acquisto, il consumatore è spesso solo e disposto a dedicare pochissimo tempo a quella scelta, nonostante l’importanza dell’occasione.

 Il tempo medio di fronte allo scaffale è di 15 secondi, in cui la nostra mente si trova a vagare tra un centinaio di proposte diverse senza alcuna competenza per distinguere coerentemente una bottiglia dall’altra.

Il primo istinto è appellarsi a princìpi di cultura generale.

             Cena a base di pesce. Quindi bianco. (Nozione tra l’altro errata in caso di pesci dal sapore molto forte o cotture in umido).

Pur nell’errore, riduciamo la nostra gamma di scelta a circa una trentina di bottiglie. E poi?

Il driver d’acquisto

Simone Mueller e Larry Lockshin, ricercatori dell’Ehrenberg-Bass Institute for Marketing Science (Australia), hanno tentato di rispondere a questa domanda intervistando un campione di 740 consumatori di vino.

Un primo test prevedeva che i partecipanti compilassero un questionario ordinando per importanza i 16 elementi proposti come driver d’acquisto.

In contraddizione alle più comuni teorie di marketing, il test rivelava determinanti elementi come brand, prezzo e regione di appartenenza, mentre apparivano quasi irrilevanti forma della bottiglia e stile e colore dell’etichetta.

Simone Mueller, Larry Lockshin

Per verificare l’attendibilità della risposta, il test venne ripetuto convertendo quelle opzioni in modelli grafici. A consumatori venne quindi chiesto di selezionare una bottiglia e indicare quella meno gradita.

Immagine tratta dalla ricerca originale

La nuova misurazione spostava lo stile dell’etichetta al primo posto con il 34% dei voti e ricollocando il brand a terzo posto, dopo il prezzo.

Lo studio dimostra non solo l’importanza cruciale del packaging nella comunicazione del prodotto, ma anche quale divario esista tra la realtà e la nostra percezione della scelta d’acquisto o, se vogliamo, quando ci costi ammettere la nostra scarsa conoscenza in materia.

L’impatto del brand nel processo di scelta

Nonostante il secondo test di Mueller e Lockshin mostri una netta ridefinizione dei driver d’acquisto, è importante notare come il brand si collochi in entrambi i casi nella top 3 della classifica. Potremmo notare la stessa tendenza nella maggior parte dei prodotti GDO, ma nel vino questo fattore determina una chiara percezione di rischio.

Se nello scegliere prodotti come pasta o salumi ci basiamo in gran parte sul gusto personale, il vino si è conquistato nel tempo un ruolo di eccellenza sulle nostre tavole. Il collegamento, ormai interiorizzato, a un sistema valoriale d’eccellenza e a quell’ondeggiare di calici che ci fa sentire così acculturati al solo ripeterlo, ci permette di percepire a pieno l’immensa quantità di variabili che condizionano la nostra scelta.
Dopo aver selezionato con cura tutti gli ingredienti per la cena perfetta, ci troviamo ad affrontare il tanto temuto scaffale, dove la nostra scelta passa da mera preferenza ad atto di affermazione sociale. Un esame finale che può amplificare l’approvazione dei nostri ospiti o condannarci a mesi di “ma ti ricordi che robaccia abbiamo bevuto da Claudia?”.

Inserendosi come spartiacque tra opzioni considerate cheap e bottiglie di qualità, il brand agisce come minimizzatore di rischio percepito, rassicurandoci nel confronto tra la nostra scelta e “l’opzione discount”, a prescindere dal prezzo e dall’effettiva superiorità del vino.

Un buon Krug o lo Champagne del Lidl?

Economia di scelta

La scelta di una bottiglia è solo una delle migliaia che ci troviamo ad affrontare ogni giorno. Nel tentativo di ottimizzare tempo ed energie e ridurre il rischio d’errore, il nostro cervello si adatta a ciò che conosce, instaurando una delle meccaniche alla base di ogni buona strategia di marketing: l’abitudine.

Circa il 45% delle nostre decisioni quotidiane è una semplice ripetizione di un primo test considerato positivo. Ogni volta che un nuovo elemento entra nella nostra routine siamo naturalmente portati a notarne gli effetti e a categorizzarlo come qualcosa di più o meno gradito. La novità richiede uno sforzo e lo sforzo genera aspettativa.

L’obiettivo di un nuovo prodotto è proprio quello di intercettare questa aspettativa e convertirla in un bisogno, inserendosi così nell’abitudine d’acquisto del consumatore.

Una grande percentuale di aziende emergenti fallisce perché non è in grado di trovare la chiave per innescare questo cambio di abitudine.

In questo processo di posizionamento, è importante considerare che ciò che non rientra nell’abitudine non è necessariamente legato a una valutazione razionale. Gerald Zaltman, scrittore e docente alla Harvard Business School, afferma che solo il 5% dei comportamenti d’acquisto ha una matrice razionale.

Una strategia di comunicazione efficace gioca proprio sul gap tra abitudine e razionalità, sfruttando la tendenza umana a prendere decisioni basate su convinzioni ed emotività.

Vendere emozioni

Confrontando diverse bottiglie di vino è possibile notare come, la scelta di un colore, di una parola o di un carattere possa cambiare completamente il posizionamento del prodotto.
Un’etichetta grafica con evidenti richiami al territorio d’origine ci porta a considerare con maggiore attenzione il vitigno, mentre un accostamento di nero e oro in un’etichetta più minimalista, ci trasmetterà una sensazione molto diversa, proponendosi come scelta “raffinata”. Secondo alcuni studi, la capacità del packaging di stabilire a priori la qualità del prodotto condiziona pesantemente la degustazione di un consumatore medio.
I ricercatori dell’università dell’Hertfordshire hanno testato questa teoria proponendo a 600 consumatori lo stesso vino in bottiglie con etichette diverse. Nel primo caso, un packaging standard da supermercato, nel secondo, una bottiglia con etichetta datata e curata nella descrizione. Pur variando la tipologia di vino, il test dimostrava come gli intervistati, all’assaggio, non fossero in grado di constatare la coincidenza, riportando due esperienze di degustazione anche molto diverse; un dato che dimostra quanto sia importante coinvolgere il consumatore e anticipare l’esperienza.

La costruzione di una grafica o di un packaging efficace contribuisce anche a creare connessioni tra prodotto e brand, definendo un’identità di marca coerente nel tempo che permette al consumatore di identificare subito l’opzione familiare tra le tante proposte sullo scaffale.
Un classico esempio di stilema di marca generato dal packaging è l’utilizzo dello “scudo” a rilievo sul collo della bottiglia del Dom Pérignon, che permette di distinguere al tatto la propria scelta ogni volta che viene impugnata per essere aperta. Trattandosi di uno champagne, per sua natura dedicato alle grandi occasioni, questo gesto si affianca molto spesso a cibo raffinato, celebrazioni e condivisione, creando uno stretto legame tra l’esperienza tattile e la piacevolezza del momento. La capacità di toccare le corde emozionali garantisce al brand una leva decisiva per imprimersi nella memoria e posizionarsi tra le abitudini del proprio target. L’archiviazione di informazioni nel cervello risulta infatti più efficace se l’evento è connesso a sensazioni come piacere, o meraviglia, che provocano un rilascio di dopamina trasmessa all’ippocampo, l’area celebrale associata alla formazione dei ricordi.

Ma se abbiamo identificato il brand come comune denominatore delle scelte di consumo, appare chiaro come sia fondamentare la coerenza tra identità visuale e valori di brand.
A raccontare visivamente la storia di un prodotto di eccellenza è la bottiglia di Abissi, lo spumante lasciato invecchiare a 60 metri di profondità, dove l’acqua del mare lo mantiene a una temperatura media di 15°e i sedimenti gli conferiscono il suo caratteristico sapore minerale e salmastro.
La bottiglia viene venduta ancora ricoperta di incrostazioni, protette dall’involucro trasparente, con un’etichetta che ne racconta il sapore e la tradizione.
Non certo un prodotto da GDO, ma un ottimo esempio di come un packaging possa nascere da un’innovazione di processo e raccontarla con immediatezza al grande pubblico.

Nonostante la crisi economica, in Italia i consumi di vino si mantengono stabili e i supermercati si confermano primo canale di distribuzione. Gli studi ci dimostrano come questa tendenza non possa essere ignorata e quanto in fretta il consumatore sia in grado di scartare le opzioni di scelta per identificare una preferenza. Un brand ha solo 15 secondi per attirare la sua attenzione e posizionarsi tra le sue abitudini di acquisto e, come si suol dire, la prima impressione è tutto.

Marianna Moni

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