Meme: nascita e maturità di un fenomeno che ha cambiato le regole della comunicazione

Li vediamo ovunque. Si riproducono alla velocità della luce e ci intasano la bacheca più dei gattini e dei repost politici. Quando un meme prende piede è come il raffreddore:…

Li vediamo ovunque. Si riproducono alla velocità della luce e ci intasano la bacheca più dei gattini e dei repost politici. Quando un meme prende piede è come il raffreddore: non sai mai quanto dura e non puoi fare altro che aspettare che passi.

Ma se pensate che i memi siano una moda degli ultimi anni o una recente trovata di qualche guru dei social network, mi spiace deludervi. Stavolta è scienza.

Il termine meme fu usato per la prima volta dal biologo Richard Dawkins nel 1976, ben prima della nascita di Internet. Nel suo libro Il gene egoista Dawkins descrive il meme come un’unità informativa e comportamentale che, proprio come un gene, può essere trasmessa da un individuo a un altro. Nel corso di questo processo, i memi ereditati dai nostri genitori si mescolano con le informazioni che riceviamo dal mondo e mutano, adattandosi a un nuovo contesto.

4chan o la culla dei memi

Agli albori dell’Internet, questo processo attecchì alla rete grazie all’invenzione del quindicenne americano Christopher Poole, poi conosciuto online come Moot.  Nel 2003 nasce 4chan, un forum a modello imageboard che negli anni seguenti ospiterà il meglio e il peggio di Internet in un flusso informativo completamente fuori controllo.

Una delle principali caratteristiche del forum era, ed è ancora, la pubblicazione anonima. Il fatto che ad ogni utente venisse attribuito di default il nickname Anonymous, permise un totale appiattimento dell’ego in favore dello sviluppo dei contenuti. Anon divenne così identificativo del singolo e della community dando vita al saluto Ciao Anon!, con cui gli utenti salutavano la board e, implicitamente, se stessi. Su 4chan nessuno postava foto delle proprie giornate di shopping o dei pomeriggi in spiaggia perché, una volta scorsa la board, si sarebbero perse nei meandri del forum e non sarebbe mai stato possibile ricollegarle a un’identità specifica. Ogni bacheca era un flusso ininterrotto di contenuti, più o meno legati a un tema madre, in cui era possibile innestarsi per prendere parte a un ramo della discussione. In breve tempo il forum raccolse milioni di nerd, matematici e curiosi che iniziarono a condividere immagini e opinioni. Su 4chan ce n’era per tutti i gusti e tutti trovavano il proprio posto. Proprio tutti.

Se da un lato questa condivisione incontrollata permise di diffondere contenuti di altissima qualità (famoso il caso di Cicada 3301, una misteriosa associazione che pubblicò una serie di complicati enigmi allo scopo, dicono, di indentificare individui estremamente intelligenti), dall’altra diede spazio anche ai deliri di psicopatici e assassini di tutto il mondo. Tra una foto e l’altra, su 4chan nasce anche il movimento alt-right, che promuove idee di destra “alternative” con risvolti violenti e denigratori nei confronti del femminismo, dell’omosessualità e di ogni forma di emancipazione dalla “supremazia maschile americana”.  Su /b/, la board random del forum, furono numerosi i casi di criminali che raccontavano i propri crimini o invitavano gli utenti a indovinare il nome delle vittime o il luogo del loro prossimo attentato. Ovviamente, gli Anon non risparmiarono nemmeno gli attacchi politici. Solo 2 anni fa, dopo l’elezione di Trump, Shia LaBeouf espose al MOMI di New York una bandiera con scritto “He will not divide us”. Dopo i sabotaggi organizzati dagli utenti di destra, decise di nasconderla e lasciarla sventolare in diretta streaming mondiale. Alcuni utenti della board /pol/ (politica) attivarono il proprio weaponized autism per studiare la direzione del vento, le stelle e il passaggio degli aerei nel video per triangolare la posizione della bandiera. In 37 ore venne trovata e sostituita con un cappellino con lo slogan di Trump e una t-shirt di Pepe the Frog.

In questa giungla di contenuti e azioni di protesta, nasce l’internet meme; come continuo riferimento a queste e ad altre storie. Episodi e concetti chiave del forum vengono cristallizzati in vignette che ne riassumono il senso costituendo, appunto, nuove unità memetiche.

Negli anni si sono sviluppati numerosi modelli di meme ed esistono molti modi per classificarli (per tema, per periodo, secondo lo stile, etc.), ma il DNA di un meme è formato sempre e comunque da due elementi cardine. Il complesso insieme di informazioni che acquisiamo leggendo una storia online o informandoci sull’attualità costituisce la base culturale, allegoricamente riassunta in una grafica. Proprio perché basati su fatti noti, nell’osservarli ci aspettiamo di poterne prevedere il senso e, appena poggiamo gli occhi sul primo angolo di immagine, il nostro cervello si prepara a completare l’informazione. La variabile è l’elemento che devia questo processo, ricontestualizzando l’informazione o creando situazioni paradossali o in cui ci riconosciamo. Questo processo dà vita all’ironia e spiega anche perché non tutti ridiamo di fronte agli stessi memi: non sempre ne comprendiamo la base culturale.

Il meme ai tempi di Facebook

La maturità di questo fenomeno si raggiunge agli apici di Facebook, tra il 2014 e il 2015, quando i memi passano dall’essere un semplice repost da 4chan e altre piattaforme simili, all’affermarsi come vero e proprio linguaggio di massa. I memi diventano reaction ai post o modelli con cui riassumere un’esperienza o una sensazione personale. Si passa dall’ironia sul fatto all’ironia su sé stessi tramite il fatto, che in molte delle creazioni più recenti, perde quasi completamente la propria natura aneddotica. L’attenzione del nuovo pubblico, abituato alle logiche autoreferenziali del social e tendenzialmente meno informato sulle vicende underground del web, è meno duratura e il ciclo di vita dei memi si accorcia. Evolvono rapidamente e altrettanto rapidamente si diffondono, prima di sparire nel dimenticatoio del mese. È l’epoca della viralità.

Dentro e fuori dalla Rete

Come è facile immaginare, agenzie di comunicazione e brand manager di tutto il mondo non sono certo rimasti a guardare e hanno iniziato ad includere la logica memetica nella struttura dei post e nelle campagne pubblicitarie, dentro e fuori da internet.

Ceres ha notato l’affinità tra la propria comunicazione e quella dei memi e ha iniziato ad includerli nei post della propria pagina Facebook, personalizzandoli e adattandoli alle campagne in corso. Nel 2016, organizza il memevale, una serie di eventi in cui gli ospiti venivano truccati da meme e postati sulla pagina con tanto di frase abbinata. La trovata riempì i locali ed ebbe un notevole impatto sulle interazioni online.

I creativi di Netflix adottarono quasi da subito la memetica nei propri post, specialmente su Instagram, dove l’immediatezza del messaggio si sposava perfettamente con la logica image oriented del social. Con una comunicazione così, cosa poteva andare storto? Beh, nel 2018 ha piovuto.

L’anno scorso Netflix intensificò la comunicazione online per dare risonanza al film Bird Box. Le recensioni degli abbonati dichiararono un mezzo flop, ma era un horror e c’era Sandra Bullock quindi riuscì comunque a guadagnarsi il suo 63% su Rotten Tomatoes.

L’immagine della Bullock con la benda sugli occhi ebbe una tale presa sul pubblico che i suoi memi iniziarono a diffondersi in centinaia di variazioni, che riproponevano l’attrice bendata nelle situazioni più assurde. Il meme portò oltre 45 milioni di visualizzazioni sul sito ma in poche settimane la cosa sfuggì di mano. La popolarità della scena generò la Bird Box Challenge: una sfida online in cui i partecipanti si riprendevano bendati per ore mentre svolgevano azioni quotidiane. Dopo i primi video, gli imitatori iniziarono a calcare la mano per ottenere un effetto sempre più sensazionalistico e, tra i video ironici di fan che rovesciavano la spesa o affrontavano percorsi a ostacoli, iniziarono a spuntare sollevamenti di pesi, sfide in motorino e addirittura corse libere contro le pareti di casa. A meno di un mese dall’uscita del film, Netflix pubblicò un post in cui pregava gli utenti di interrompere la folle Challenge.

Al di là degli incidenti di percorso però, l’adozione dei memi in comunicazione ha dato e continua a dare ottimi risultati e contribuisce a “svecchiare” anche i brand più austeri e longevi.

La General Electric, non proprio leader dell’immaginario millennial, ha riadattato il meme “Hey Girl”, con protagonista Ryan Gosling, sostituendo l’attore con Thomas Edison e riadattando testi e ambientazione. Il risultato è un austero Edison che tenta di scalzare il fascino di un sex symbol contemporaneo con goffe battute nerd sull’energia. Non altrettanto suggestivo, ma certamente più esilarante.

Nel caso della GE, il distacco tra il meme originale e la nuova versione viene colmato da un’ampia condivisione della base culturale. Tutti sanno chi fu Thomas Edison e il brand General Electric non lascia certo spazio a grandi dubbi sui propri servizi. Su Facebook si sono inoltre diffuse numerose vignette storiche che rappresentavano filosofi, scrittori e storici in situazioni paradossali per il proprio tempo e possiamo dire che questa modernizzazione dei grandi del passato sia stata un vero e proprio micro trend dell’umorismo in rete.

L’immediatezza dei memi permette di costruire la comunicazione in un modo completamente nuovo, chiaro e immediato, trasmettendo agli utenti una sensazione di familiarità e qualche secondo di intrattenimento; un approccio già ampiamente testato nell’infotainment e nel content marketing.

C’è già chi parla di meme marketing, fregandosi le mani davanti al potenziale virale della novità e idolatrandone la semplicità. Ma non tutto ciò che è semplice è anche banale e può richiedere molta più analisi di quanto non sembri. La variazione della GE si è rivelata efficace perché la base culturale è stata mantenuta e ampliata nella sua versione retrò, ma un pesante ritocco alla grafica e all’organizzazione dei contenuti corre spesso il rischio di distaccare il meme dal proprio senso e penalizzarne l’efficacia.

Tra i tentativi meno riusciti, spicca la campagna di Spotify costruita sul meme “me, also me”.

Nonostante la chiarezza del messaggio, il risultato presenta lacune piuttosto evidenti. Lo schema originale è composto da una prima frase, il “me”, che descrive un comportamento coscienzioso o appropriato che trova per sua natura il consenso del lettore. L’immagine mentale che ne deriva viene subito smentita dall’ “also me”, a cui segue una foto che rappresenta per iperbole ciò che il soggetto sceglie davvero di fare.

La scelta di questa iperbole è proprio ciò che spezza il flusso narrativo e consente a chi condivide il meme di fare autoironia su un proprio difetto o imperfezione. Inoltre, il lettore che conosce il modello, si aspetta di ricevere in chiusura un’immagine fortemente contraddittoria e, per certi aspetti, sgraziata e eccessiva.

Nel caso del manifesto, il tentativo di rimanere attaccati all’identità visuale del brand ha finito per smorzare l’effetto paradosso minando il senso del meme. La distribuzione orizzontale degli elementi crea da subito un distacco e font e colori pastello identificano in modo chiaro il collegamento con i banner di Spotify, generando un’aspettativa che scollega l’immaginario del lettore dal concetto di meme. Non è certo un caso se tutti i memi online condividono lo stesso font. Non lo avevate notato?

Ma il vero problema, in questo caso, è la scelta dell’immagine finale. Oltre a non rispettare lo schema grafico del meme, che ok, potremmo anche soprassedere, manca completamente di quel carattere trasandato ed esagerato in grado di farci ridere. La playlist è rappresentata da una fotografia professionale dai toni glamour, perfettamente coerente con il resto del manifesto.

Leggendo la sequenza un paio di volte il meme originale finisce per essere evocato ma con un effetto poco familiare e, per qualche motivo, disturbante.  Che sia un modo per tenere l’audience più tempo di fronte al messaggio? Possibile. Ma come ormai sappiamo bene, è molto difficile superare la famigerata soglia degli 8 secondi e farlo nel modo sbagliato può generare un senso di insoddisfazione o, in casi estremi, di fastidio per il tempo rubatoci. Due sensazioni certamente poco vantaggiose per un brand di intrattenimento.

Marianna Moni

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