Il logo della Reggia di Caserta tra brand management e gestione della crisi

La Reggia di Caserta è la residenza reale più grande al mondo; 5 piani, 1.200 stanze, 47.000 m² senza contare i giardini. Patrimonio dell’UNESCO ed espressione di una regalità e…

La Reggia di Caserta è la residenza reale più grande al mondo; 5 piani, 1.200 stanze, 47.000 m² senza contare i giardini. Patrimonio dell’UNESCO ed espressione di una regalità e una magnificenza costata 93 anni di lavori e 8.711.000 ducati. In sintesi: un palazzo che si fa notare.

In un momento storico rallentato dalle difficoltà sanitarie, in cui il pubblico appare troppo angosciato per indugiare nella contemplazione del proprio patrimonio artistico, la Reggia ha deciso di investire in un restyling del logo.

Più che sensato. È l’occasione giusta per far parlare di sè e ricordare al pubblico quale bellezza li aspetta fuori dalle mura domestiche. Bellezza e positività. Ne abbiamo davvero bisogno.

Il 22 aprile Tiziana Maffei, direttrice della Reggia, ha presentato il nuovo logo con le seguenti parole:

“Per dare forma a un brand abbiamo fatto emergere i caratteri profondi che connotano la Reggia di Caserta. La sua storia, che nasce dalla visione di un monarca; la sua arte, capace di diventare paesaggio; la sua cultura, che si trasforma in valore di produttività nel campo artistico, manifatturiero e sociale. La Reggia di Caserta è il più potente sogno dei Borbone.

Tiziana Maffei

Benissimo! Proprio quello che tutti ci aspettavamo. Vediamo questo nuovo logo…

Uhm… mi ricorda qualcosa.

“Il nuovo logotipo è stato realizzato con un carattere tipografico fedele agli stilemi vanvitelliani, con una trascrizione attuale, contemporanea e durevole. I colori primari sono quelli dello stemma dei Borbone: il blu, per la voce istituzionale; l’oro, per la suggestione del percorso museale”.

Tiziana Maffei

Sorvolando sul fatto che il lettering non ha assolutamente nulla di “vanvitelliano” e che i Borbone non hanno scelto l’oro per il proprio stemma prevedendo di costruire un museo, il vero problema continua a essere un altro: mi ricorda qualcosa.

A pochi minuti dal comunicato, si scatena la gogna mediatica. Il logo appare triste, poco originale e incapace di competere con quello di altre bellezze europee (in particolare la Reggia di Versailles, il cui logo rispecchia perfettamente sia l’imponenza che la storia del palazzo). All’orda di follower inviperiti, si accoda addirittura l’ordine degli architetti, paragonando il nuovo logo a quello del tennista Roger Federer o, ancora peggio, a quello proposto in un contest di logo design online per la società immobiliare canadese Ricco Colinares, che utilizza da anni lo stesso monogramma.

Ah! Ecco dove l’avevo già visto.

L’ufficio stampa della Reggia è nel panico. Il restyling è costato 37.000 euro e il pubblico lo sta usando per costruire parodie e screditare la direzione del museo. A pochi giorni dal lancio, il monogramma viene eliminato e si apre una gara per il design della nuova versione.

A livello di brand management, la vicenda della Reggia di Caserta evidenzia due problemi estremamente gravi: la strategia e il crisis management.

Un approccio al restyling molto poco strategico

La nuova identità visuale della Reggia, è stata gestita da una società di Mantova, scelta (secondo i rumors) sulla base di una non meglio definita “analisi di mercato”. Oltre a perdere l’opportunità di alimentare le attese attraverso una gara tra agenzie, la scelta ha portato a un risultato molto in contrasto con le dichiarazioni della direzione museale. A prescindere dalle ovvie speculazioni su favoritismi, spesa sproporzionata e lavoro “all’italiana”, con l’agenzia può essere successa solo una tra le seguenti possibilità:

  • Ipotesi peggiore: Non c’è stata strategia. La Reggia ha chiesto qualche idea e ha scelto quella che giudicava più bella.
  • Meno grave, ma comunque grave: La strategia è stata definita ma non compresa o approvata dalla direzione della Reggia. In un rimbalzo di modifiche e malcontento, incomunicabilità e scadenze hanno portato a consegnare (e accettare) un lavoro che “in fondo non è male”.
  • Abbastanza grave, ma quantomeno comprensibile: Data l’importanza dell’incarico, l’agenzia ha seguito alla lettera le richieste della Reggia che, come per ogni cliente estraneo alle logiche del design, consistono in indicazioni vaghe e basate su criteri che non hanno nulla a che vedere con la strategia. In questo caso l’errore sta nel confidare che la competenza storica possa sostituire princìpi di design e comunicazione.
  • Ipotesi auspicata: In realtà la strategia c’era e il logo aveva lo scopo di rendere contemporanee delle caratteristiche classiche incorporando i colori dei Borbone. La crisi scatenata dalle inaspettate associazioni del pubblico ha mandato la direzione e l’ufficio stampa nel panico, rendendoli incapaci di gestire la crisi.

Ciò che rimane certo è una totale mancanza di studio della Voice of Customer e del settore di riferimento. Le aspettative e l’immagine che la reggia proietta nella mente del pubblico non sono state valutate, così come non è stato considerato il confronto, inevitabile, con altri palazzi storici. A prescindere dall’identità della Reggia, il panorama di edifici d’epoca italiani ha generato dei canoni che costituiscono il frame of reference del turismo architettonico.

Per fare un paragone: Come vi sentireste se da domani Valentino o Dolce&Gabbana scegliessero un logo giallo canarino in Comics Sans?

Crisis Management: istruzioni per l’uso

Nonostante il pubblico sia sempre pronto a puntare il fucile contro certi errori, ciò che determina la vera e propria morte di un brand è l’incapacità di rispondere alle obiezioni.

La risposta della Reggia alle polemiche sui social è stato un immediato passo indietro, scartando a tavolino la possibilità di difendere pubblicamente la scelta e/o ironizzare sulla curiosa coincidenza. L’eliminazione del logo ha, di fatto, confermato la mancanza di una strategia forte, demolendo definitivamente la credibilità della direzione del museo.

Anche nei casi in cui un’identità visuale si distacchi molto dalle aspettative del target o dal proprio frame of reference, ciò che ne determina la credibilità è il principio alla base del cambiamento. Una corretta comunicazione della novità è quindi cruciale per evitare una reazione negativa da parte del pubblico. Nel caso della Reggia di Caserta, la presentazione è stata evidentemente farraginosa, ma comunque difendibile.

Vediamo perchè:

L’attacco alla scelta estetica

Blu e oro sono storicamente i colori dei Borbone e il pesante intervento sul lettering, per quanto discutibile, può essere giustificato dal desiderio di “alleggerire” un logo che è stato per decenni considerato pesante, scuro e poco rappresentativo dello stile della Reggia. Questo confronto con la vecchia versione è talmente ovvio da essere, di fatto, inattaccabile. A prescindere dal gusto personale era estremamente difficile associare il vecchio logo a un palazzo d’epoca, soprattutto per la forma “a grata”, che tutto ricorda tranne che un luogo magnifico e opulento.

L’attacco all’originalità

Bisogna partire dal presupposto che questa obiezione trova fondamento solo a causa della somiglianza stilistica con Ricco Colinares e Federer. Nessuno si aspetta che un logo sia originale a prescindere, ma la quasi totale coincidenza di forme e sintesi dovrebbe suggerire, anche al brand manager meno esperto, l’utilizzo di un software; o comunque di una qualche forma di “adattamento”. Posto che l’obiettivo del crisis management è proteggere il percepito del brand e non la reputazione dell’agenzia partner, la prima e più logica azione in merito è anche la più scontata: chiedere scusa. Togliere il logo non sostituisce in alcun modo la presa di coscienza di aver ricevuto un lavoro frettoloso e probabilmente copiato o la richiesta all’agenzia di spiegare l’accaduto.

La mancanza di visione a lungo termine

Se Steve Jobs avesse chiesto al pubblico opinioni sulla propria mela mordicchiata, i più avrebbero storto il naso. Avrebbero detto che non riflette l’innovazione Apple o che sembra il logo di un fruttivendolo. Questo per dire che l’efficacia di un logo molto raramente è determinata dai suoi stilemi. Un logo acquista valore nel tempo, forte del polso strategico e della coerenza del brand.

Di fatto, se la direzione museale avesse difeso la scelta a spada tratta, comunicando la volontà di associare quelle forme all’immagine della Reggia (a prescindere dal fatto che fossero più o meno copiate), dopo qualche settimana la polemica sarebbe scemata e in un paio d’anni il logo sarebbe stato da tutti riconosciuto e associato a quel luogo.

L’approccio eccessivamente conservativo

Ultimo, ma non per importanza, è da sottolineare come la direzione della Reggia abbia accuratamente evitato ogni genere di confronto con il pubblico, lasciandolo in balia delle proprie speculazioni. L’immediato dietrofrónt sul monogramma ha comunicato i tre messaggi peggiori possibile:

  • Paura dell’opinione pubblica.
  • Scarso interesse a comprendere a fondo il malcontento
  • Desiderio di seppellire lo scandalo

Ormai è un po’ tardi, ma ci proviamo lo stesso

Come è facile immaginare, al terzo strike la partita si avvicina alla conclusione. Smetteremo di visitare la Reggia? Ovviamente no, ma lo scandalo del logo è ormai un caso studio e il danno d’immagine è concreto.

Gentile Tiziana Maffei, mi permetto un breve suggerimento per il prossimo comunicato stampa:

Vorremmo scusarci con il pubblico della Reggia di Caserta per quanto accaduto durante il restyling del logo. Mai avremmo immaginato di aver ricevuto un lavoro di tale superficialità. Ci assumiamo certamente gran parte della responsabilità per non aver adeguatamente supervisionato il processo di creazione e aver causato alla Reggia quello che concordiamo nel considerare un danno d’immagine inaccettabile e certamente evitabile. La scelta di rimuovere il logo ha il preciso scopo di restituire alla Reggia il rispetto dovuto in quanto patrimonio artistico e storico del nostro paese, in attesa di una soluzione all’altezza dello splendore che tutti riconosciamo.

Marianna Moni

Marianna Moni

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