Dinamica e meccanica dell’abitudine d’acquisto

L’abitudine è un compromesso fra l’individuo e l’ambiente che lo circonda, o fra l’individuo e le sue eccentricità organiche, la garanzia di un insensibile inviolabilità, il parafulmine della sua esistenza.…

L’abitudine è un compromesso fra l’individuo e l’ambiente che lo circonda, o fra l’individuo e le sue eccentricità organiche, la garanzia di un insensibile inviolabilità, il parafulmine della sua esistenza.
(Samuel Beckett)

Non mi serve, non mi piace, ma lo compro lo stesso.

In un articolo del 2006, pubblicato dalla Duke University, si legge che “oltre il 40% delle nostre scelte quotidiane è frutto di abitudini”, un’affermazione ormai alla base di molte moderne strategie di marketing.

Per decenni la cosiddetta “fidelizzazione” è stata attribuita alla reputazione del brand, alle caratteristiche del prodotto, al design, alla qualità… Tutti fattori ancora importanti e certamente fondamentali in un’epoca di boom economico e continua creazione di nuovi bisogni. Ma in anni in cui i prodotti concretamente rivoluzionari si contano sulla punta delle dita e i consumatori sono ormai immuni ai “consigli per gli acquisti”, avere un buon prodotto non basta a conquistare un posto nella loro memoria.

Oggi, l’unico modo per assicurarsi un posto fisso nel carrello del proprio target è riuscire a intercettare una falla nella sua routine e inserirsi come risposta a una mancanza o a una sensazione costante, fino a rappresentare un vero e proprio bisogno quotidiano; in altre parole: un’abitudine.

La meccanica dell’abitudine

Per attuare questa strategia è però necessario comprendere a fondo quali sono i meccanismi inconsci del cervello umano e quali leve sono abbastanza forti da attivare il nostro pilota automatico.

Nel libro Il potere delle abitudini lo scrittore e giornalista Charles Duhigg raccoglie vari studi e aneddoti che dimostrano come l’abitudine sia estremamente più forte di ogni scelta razionale e come il nostro cervello tenda ad attivarla per aggirare l’immensa mole di decisioni che ci troviamo ad affrontare ogni giorno.

Quante energie richiederebbe gestire razionalmente ogni azione della nostra giornata?

Ogni mattina ci interrogheremmo sulla strada da percorrere per raggiungere l’ufficio e su ogni singolo movimento che ci permette di guidare l’auto fino a destinazione, sulla reale necessità di un secondo caffè dopo un paio d’ore di lavoro e di una sigaretta subito dopo.

È per questo che molto spesso ci troviamo a ripetere le stesse scelte nonostante il risultato non sia sempre quello sperato. Ci concediamo un biscotto dopo pranzo, nonostante la bilancia ci rimproveri ogni mattina, e continuiamo a fumare nonostante le minacciose immagini stampate sul pacchetto.

Secondo Duhigg il meccanismo di scelta automatica può essere descritto secondo un modello chiamato Circolo dell’abitudine che distingue tre momenti precisi.

Per poter attivare l’abitudine, il nostro cervello ha bisogno di uno stimolo; una sensazione o un contesto che identifichino il bisogno in questione e la strada più breve per soddisfarlo. Duhigg definisce questo stimolo: Segnale. Nel momento in cui al primo segnale segue un’azione che soddisfa il bisogno, otteniamo Gratificazione, collegando i due elementi secondo una logica causa-effetto. La coincidenza tra segnale, azione e gratificazione instaura la Routine: un pattern decisionale che il nostro cervello associa a quello specifico bisogno.

Sembra facile vero? Che ci vuole. Chiediamo al nostro target qual è il suo bisogno e posizioniamo il prodotto adeguato nel luogo in cui è più probabile che si trovi al momento del Segnale. Basterà rafforzare lo stimolo con una comunicazione ad hoc e il gioco è fatto.

Giusto?

Sbagliato.

Indagare la scelta

Il problema delle abitudini è che le persone non sono abituate a riconoscere e analizzare un segnale e questo rende quasi impossibile scindere quali dichiarazioni sono coerenti con il circolo instaurato e quali invece sono frutto di un’interpretazione.

Vi siete mai chiesti perché ogni giorno, proprio a quell’ora, scendete al bar per il caffè? Qual è il segnale? E, soprattutto, qual è il vero bisogno?  

Una routine semplice come scendere al bar, bere il caffè e tornare in ufficio può rispondere a molti bisogni diversi e chi la segue può non conoscere il proprio o scambiarlo per un bisogno diverso.

Se chiedessimo a un campione di 100 impiegati qual è il bisogno che li porta a cercare il caffè otterremmo risposte molto diverse. La maggior parte di loro risponderebbe che li aiuta a stare svegli e concentrati, altri potrebbero dire che hanno bisogno di sgranchirsi le gambe e altri ancora che è un modo per concludere il pranzo o che hanno una certa simpatia per la barista di turno. Nel peggiore dei casi, darebbero risposte vaghe mescolando le opzioni stabilite dagli altri e gettando ancora più caos sul nostro tentativo di stabilire una casistica. Alla fine, otterremmo comunque una rilevazione che divide il nostro target in cluster ma, molto probabilmente, falsata dalle convinzioni personali degli intervistati o da risposte impulsive a domande che non si erano mai posti.

Nell’ottica di insegnare come controllare le proprie abitudini, Duhigg spiega anche come identificare il bisogno, suggerendo di sostituire la routine con un’altra. Se, ad esempio, il nostro caffè venisse sostituito da 10 minuti di chiacchiere con un collega e, tornati alla scrivania, non sentissimo più il bisogno di scendere al bar, avremmo capito che il caffè non è un modo per stare svegli o concludere un pasto ma solo una scusa per chiacchierare con qualcuno.

Potrà sembrare un dettaglio insignificante ma immaginiamo di dover scegliere come comunicare una nuova miscela di caffè e di aver rilevato, tramite questionario, un’ampia percentuale di consumatori (ipotizziamo un 60%) che dichiara di bere il caffè a metà pomeriggio per affrontare le ultime ore di lavoro. Va da sé che, nello strutturare una campagna, la leva chiave sarà l’energia trasmessa dalla caffeina, probabilmente con ovvi riferimenti allo stress lavorativo e all’orologio che sembra immobile.

Immaginiamo ora che al nostro prodotto si affianchi quello di un competitor che sceglie, al contrario, di comunicare la propria miscela come ottima per concludere un pasto con gli amici, affiancandola a immagini conviviali e risate.

Di fronte allo scaffale, il consumatore che aveva scambiato il bisogno di convivialità per stanchezza continuerà a essere ignaro del proprio errore, ma il suo cervello cercherà comunque l’opzione più simile a quella con cui è abituato a rispondere al Segnale.

Ed eccolo afferrare il pacco del nostro competitor, ignaro del proprio bisogno e dell’aver boicottato una campagna pensata proprio sulla base di ciò che lui aveva dichiarato.

E quanti come lui avranno frainteso il proprio bisogno e scelto il caffè “sbagliato”? E se nella prima settimana di campagna il cluster che abbiamo individuato si riducesse al 30%? Dimezzate di netto le vendite. Direttori marketing con le mani nei capelli. Creativi feriti nell’ego dall’inefficacia della propria campagna. Copywriter che vagliano tutte le combinazioni di parole che avevano scartato, dubitando di saper ancora fare il proprio mestiere fino alla fatidica domanda: “Ma dove abbiamo sbagliato?!”

Maslow, Ferrero e il princìpio di scarsità

Appare quindi chiaro come, nell’analisi di un’abitudine, l’opinione del nostro target si riveli la fonte meno attendibile per identificare Segnale e Gratificazione. Lo studio di un’abitudine d’acquisto richiede una maniacale attenzione ai dettagli e un accurato controllo della coerenza tra dichiarazione e azione.

È anche importante ricordare come alcuni meccanismi sociali costituiscano abitudini che toccano indistintamente ogni singolo consumatore. Indipendentemente da preferenze e caratteri sociodemografici, ognuno di noi risponde a bisogni di varia natura secondo una gerarchia comunemente definita dalla famosa Piramide di Maslow.

Trattandosi di un modello teorizzato nel 1954 e basato su una semplificazione in 5 compartimenti stagni, è evidente come Maslow non stesse considerando l’evoluzione e la complessità che in pochi anni avrebbe assunto il concetto di bisogno, prima tra tutte, la distinzione tra bisogno reale e percepito o la possibilità di invertire la priorità di alcuni gradini con leve politiche, religiose, affettive o di comunicazione.

Tuttavia, ci permette ancora di categorizzare le scelte umane secondo parametri più o meno universali definendo una corrispondenza tra azioni quotidiane e tipologia di bisogno.

Per dimostrare l’efficacia di questo livello di analisi è la recente campagna Ferrero per il lancio degli ormai celebri Nutella Biscuits. Con un fatturato di 8 mln di euro solo nella prima settimana, il nuovo prodotto ha catturato l’attenzione di consumatori e media soprattutto per la velocità con cui riesce a sparire dagli scaffali.

Giovanni Ferrero, CEO dell’omonima multinazionale, ha commentato il successo con stupore e innocente meraviglia, dichiarando che il successo dei biscotti ha “superato le aspettative”.

Volendo credere che una multinazionale come Ferrero, dopo 10 anni di sperimentazioni, 120 mln di investimento e una campagna marketing degna delle presidenziali americane del ’60, non avesse previsto una distribuzione all’altezza delle richieste o, quantomeno, implementabile in tempi brevi, rimane il dubbio di quale sia la leva alla base di cotanto successo.

In un contesto sociale in cui i bisogni fisiologici possono, in linea generale, essere soddisfatti con sforzi minimi, la presenza di un prodotto su uno scaffale rappresenta un fatto ormai scontato. Qualcosa su cui non serve discutere o interrogarsi. Se la televisione, internet o i giornali ci mostrano un nuovo prodotto, è lì che lo troveremo, ad attendere il nostro arrivo. Così, quando l’abitudine ci porta al solito supermercato, ci passeremo davanti e ci concederemo, a seconda delle nostre preferenze, il lusso di acquistarlo o ignorarlo.

Ma cosa succede quando, nel nostro circolo dell’abitudine si inserisce un fatto che cambia completamente le regole del gioco?

Cosa scatta nel nostro cervello quando al posto di una delle tante opzioni d’acquisto troviamo un vuoto?

È questo che si sono trovati ad affrontare i consumatori dopo pochi giorni dal lancio dei Nutella Biscuits.

L’impossibilità di acquistare il prodotto ha attivato quello che Robert Cialdini definisce Principio di Scarsità, scatenando il nostro ancestrale bisogno di assicurarci il cibo e aumentando esponenzialmente il valore percepito dei famigerati biscotti.

La teoria di Cialdini può infatti essere riassunta in 3 semplici princìpi:

  • L’impossibilità di avere qualcosa ne incrementa il valore percepito.
  • La privazione di libertà, in particolare di una libertà che prima avevamo (abitudine alla scelta), fa scattare il principio di scarsità anche al di sopra della reale necessità.
  • La liberalizzazione di un prodotto prima proibito, fa scemare così tanto il valore da non risultare più interessante. (Motivo per cui, Nutella non sembra affrettarsi a intervenire sull propria distribuzione).

Il caso Nutella Biscuits evidenzia anche come l’attivazione dell’automatismo, soprattutto se innescato con una leva così forte, sia in grado di distogliere completamente l’attenzione da princìpi quali: effettiva necessità del prodotto, convenienza economica e razionalizzazione di un evento.

Non sarebbe forse ragionevole sostituire i Biscuits con un comunissimo frollino intinto nella Nutella nell’attesa che il rifornimento dei negozi si normalizzi e il prezzo da lancio si abbassi?

È davvero logico comprare il prodotto su Amazon a prezzo triplicato pur di averlo subito e partecipare all’euforia di massa?

Questo esempio ci dimostra quanto l’abitudine sia radicata nel nostro agire quotidiano e quanto l’innesco di questo meccanismo sia sepolto sotto strati di convenzioni e percezioni personali. L’indagine di una routine non riguarda mai un semplice acquisto, non si riduce alla mera osservazione della scelta poiché, questa scelta, ha radici ben più profonde di quanto questionari, interviste in store e focus group potranno mai rilevare.

Analizzare l’abitudine di un target richiede la capacità di immaginare un’intera vita all’interno di uno specifico contesto sociale; lo sforzo di comprendere quali bisogni muovono ogni giorno le mani del consumatore verso uno yogurt che non mangerà, un pacchetto di sigarette che lo farà ammalare o un paio di scarpe che, in teoria, non potrebbe permettersi.  

Marianna Moni

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